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SAN COSTANZO


Poche sono le notizie lasciateci dagli storici intorno alla vita di San Costanzo.
Nessuna circa la nascita, l'infanzia e la giovinezza.
Alcuni, come il noto studioso camuno Guadagnini, afferma che è nato a Niardo attorno al 1066; lo storico Doneda invece sostiene sia nato nel 1080 ma non accerta il luogo.
Nei tempi... "che furono" era la tradizione che faceva storia e senza un punto sicuro di riferimento anche le date più importanti potevano essere facilmente spostate o confuse.
B. Faino, storico vissuto nel '600, sostiene che S. Costantio è nato a Gniardo, villa (paese) della Val Camonica da famiglia nobile.

NB: gli storici di quel tempo non usavano documentare quanto scrivevano. La loro personalità garantiva la veridicità di quanto esposto.

C. Doneda, studioso del '700, sostiene invece di non essere certo del luogo di nascita del Santo in quanto gli mancano documenti per confermarlo e dice che "la sua patria non è abbastanza conosciuta" e aggiunge, pur non negando, che "Niardo deve accontentarsi di Sant'Obizio, senza pretendere anche San Costanzo.
Il Doneda era giunto a tale asserzione dopo aver letto un antico manoscritto, conservato presso il convento di Santa Caterina in Brescia, su cui c'era riportata la descrizione della traslazione del corpo "de San Constantio di nazionalità italiana" dal cenobio di Conche al monastero della città, avvenuta nel 1481.
Nel contempo però, il Doneda, dichiara che nella chiesa di Conche, nel 1443, c'era conservata una cassettina contenente "scritture" concernenti notizie su San Costanzo, "lette in detto anno dal Vaticano Generale e dal Priore Domenicano", ma che purtroppo esse andarono smarrite prima dal 1481 (data della traslazione del corpo del Santo da Conche di Brescia), "forse per la troppa facilità di levarle da quel luogo (cassettina) e consegnarle nelle mani or dell'uno or dell'altro (a componenti di famiglie di nobile casato) per leggerle..."
Narra G. B. Guadagnini che il Rev. don Lorenzo Ronchi, rettore della chiesa di Sant'Antonio in Breno, gli mostrò a suo tempo, una pergamena scritta in occasione della consacrazione della chiesa e dell'altare della vecchia parrocchiale di San Maurizio. Su di essa si leggeva che, per la consacrazione, furono poste, nel nuovo altare, per prima le reliquie di "San Constantii de Niardo".
Questo per dimostrare in quale importanza fosse tenuto il Santo e quale venerazione gli si attribuisse in Valle.
Tali reliquie erano le stesse tolte dall'altare primitivi costruito nel 1193, cioè a soli 42 anni dalla morte del Santo.
Ciò può trarre più nessuno in inganno come le reliquie fossero appartenenti a quel San Costanzo di Conche, dichiarato "di nazionalità italiana", di cui parlava il Doneda.
Sempre il Guadagnini attesta di aver ammirato nella casa dei nobili Rizzieri di Ossimo, "un quadro vecchio, di buona mano. Intorno alla effige c'era scritto: S. CONSTANTIUS DE NIARDO".

NB: detto quadro non esiste più in Ossimo in quando la famiglia Rizzieri si è trasferita altrove.

Don A. Sina, profondo studioso valligiano, critica C. Doneda e P. Guerrini che neri loro libri "non seppero tener conto della tradizione in Valle" e come il culto per il Santo eremita fosse già diffuso nel sec. XII°, cioè dalla data della morte del Santo.
La tradizione ci dice ancora che San Costanzo apparteneva ad una famiglia di Niardo, nobile e molto ricca. Ciò gli diede la possibilità di costruire sopra un monte, in località Conche posta tra i territori di Nave e Lumezzane, una casa, una chiesa e un monastero.
Quindi Niardo ha il vanto di avergli dato i natali; Conche l'onore di accoglierlo ed ospitarlo durante la sua vita di penitenza e di preghiera.
La data di nascita di Costanzo è certamente quella sostenuta dal Guadagnini: 1066 circa, e morì assai vecchio a circa 85 anni.
Egli fu il primogenito della famiglia per il fatto che solo i maggioraschi, nel Medio Evo, erano titolari del feudo. I fratelli si dedicavano all'arte militare e alla vita monastica. Le sorelle, se non erano prenotate in nozze a qualche prestigioso rampollo di sangue blu, venivano indirizzate al convento.
L'arte militare veniva appresa tramite castelli-scuola, entro i quali si radunavano i giovani cadetti, appartenenti alle famiglie dello stesso casato.
Il castello di Gorzone (che faceva parte della corte regia di Montecchio e Sciano) si prestava a simile disciplina e forse Costanzo passò parte della sua gioventù al maneggio in Sciano, specializzandosi nelle azioni di difesa delle rocche.
Nel 1091 si verificarono in tutta Lombardia gravi tumulti, per lotte tra fazioni imperiali e pontificie.
La causa va ricercata nel fatto che il vescovo di Ravenna, Guilberto, spalleggiato dall'imperatore Enrico IV° e da alcuni vescovi scismatici (tra cui Conone, vescovo di Brescia), aveva invaso la sede di San Pietro, costringendo il Papa a rifugiarsi in Castel Sant'Angelo.
Le armate fedeli al papato, accorsero in difesa delle terre minacciate.
Tra le milizie anche quella capitanata dal prode cavaliere di Niardo.
Nella cruenta battaglia per la difesa della rocca di Minervia si distinse per coraggio e valore. Costanzo, nel "furor della pugna", rimase gravemente ferito, tanto che ne restò "infirmato" per tutta la vita.
Durante la sua degenza ebbe modo e tempo di leggere manoscritti di vite di Santi, di meditare sulla situazione in cui si trovava, di riflettere sull'andamento strano delle cose di quel tempo e di prendere una seria decisione sulla sua futura condotta di vita.
Sognando gl'inferi e vedendo gli orribili tormenti dei dannati decise di sciogliersi di ogni suo bene e ne dispensò il prezzo ai poveri.
Con questi pensieri si ritirò a Conche, luogo infeudato dalla sua famiglia e che egli ben conosceva. Qui prese dimora in una grotta, a fianco del monte e iniziò la sua nuova vita.
L'Ercolani dice: "l'antro aveva un'angusta entrata con innanzi due antichissime querce; allargavasi al di dentro, nel fondo sporgevasi un sasso
appianato che parea prestarsi agli usi di tavolino".
Alla sua grotta fu un accorrere di gente bramosa di udire la sua parola, seguire i suoi consigli, ottenere conforto e benedizioni. Era tale la fiducia che aveva ispirato nel popolo che per ogni seria decisione si dipendeva da lui e talvolta per gli ottimi effetti secondati, gli veniva attribuita la virtù della preveggenza e la fama di santità. Alcuno arrivò perfino a dichiarare che, oltre al dono della profezia, facesse dei miracoli.
Sul monte costruì una chiesa, dedicata alla Beata Vergine della Misericordia ed acconto un grazioso monastero di pie donne alle quali dedicò i suoi servigi, ricambiati con venerazione e assistenza.
La chiesa e il monastero, per sua espressa volontà, furono donati a San Pietro (al Vaticano) e dichiarati esenti dalla giurisdizione del vescovo locale, cioè sottoposti direttamente all'autorità papale (da una pergamena del 1157).
Il convento venne messo sotto la Regola Agostiniana delle Canonichesse regolari, a cui il Santo prestò i suoi umili servigi, anche se fondatore.
La comunità di monache scomparve nel 1236 soppressa per ordine di Alberto da Reggio, Patriarca di Antiochia, in seguito "allo stato miserando" in cui si era ridotta.
Il convento venne assegnato ai frati provenienti dalla “Domus Humiliatorum” e la loro “devoluzione” venne confermata dal papa Innocenzo IV nel 1250.
Nel 1443 le monache domenicane di S. Caterina in Brescia, acquistarono il “dominio della chiesa di S. Maria di Conche” e in quel medesimo anno i Padri Domenicani iniziarono le ricerche della tomba del Santo fondatore.
Nel 1483 le monache rinunziarono al servizio della chiesa e questa rimase “in mano” a dei cappellani … la qual pratica dura fini ai giorni nostri.
Non risulta che vivo. Abbia compiuto miracoli. Si raccontano di lui invece fatti di chiaroveggenza.
La morte lo colse vecchio il 12 febbraio 1151, dopo un periodo di vita trascorso nel sacrificio e negli stenti, ad anni 85 circa dalla nascita, (sempre secondo i calcoli dello storico Guadagnini) e il suo corpo venne seppellito nella chiesa di Santa Maria di Conche, da lui stesso edificata.
Nel 1443 i Padri Domenicani iniziarono in Conche la ricerca della tomba del Santo, della quale, col passar degli anni, si era scordata l’esatta.
Si rinvenne solo un cofanetto, con dentro conservate delle scritture, da “lor” ritenute di poco valore, ma che accennavano esser state riposte sotto l’altare, in una “cava” le ossa del Santo Eremita.
Trentotto anni dopo e precisamente il 25 giugno 1481, Padre Tommaso Donato, patrizio e Priore del convento, recatosi personalmente in Conche, coadiuvato da altri religiosi, riprese la perlustrazione. Anch’egli iniziò a percuotere il pavimento con un palo di ferro e aprì un ampio spacco a lato dell’altare. Non trovando alcun segno “rilevatore”, ritornò in lui la sfiducia e la convinzione che le spoglie del Santo fossero celate altrove.
Il Priore però, non del tutto convinto, prima di ripristinare il piano del pavimento, dopo fervida preghiera, volle riesaminare minutamente il “buco”.
Con grande apprensione notò una “finestrella, per cui né passati tempi i Cristiani baciar soleano il Sepolcro Santo”. Più minutamente ancora riguardando, rilevò un segno, formato di pietre e di calcina, “forse un segno di croce”.
Abbattuta con la spranga di ferro la parete protettiva, “al lume di un cero acceso”, fece la prima ricognizione della “cava” e si accertò che gli ossi del corpo giacevano distesi, col “capo rivolto verso l’Oriente”, come tradizione vuole esser stato sepolto San Costanzo.
La notizia della “scoperta” delle reliquie del Santo di Conche si sparse rapidamente in città e nei paesi limitrofi, e “sommamente si rallegrarono i cittadini e con esse loro anco i Popoli delle Ville Bresciane”.
I Santi resti raccolti e messi in un’urna di vetro, furono posti alla venerazione dei fedeli accorsi da ogni dove.
Il 31 agosto dello stesso anno 1481, previo decreto del Consiglio dei Nobili, degli Anziani e degli Abati di Brescia, furono “traslati” i città.
Dopo parecchie vicissitudini i resti del Santo furono deposti in una cassa di legno duro “lunga once 18, larga once 8”. Esternamente essa era tutta rivestita di ferro e si poteva chiudere con due serrature.
Aperto il coperchio, gli ossi del Santo rimanevano ancora protetti da una grata di ferro, posta in alto. Internamente la cassa era foderata da prezioso drappo, ornato di “vaghi lavori d’argento”.
Lo scrigno, custodito in “un avello di marmo”, sotto l’altare, veniva tolto ogni anno nel giorno della festa del Santo, il 12 febbraio, e posto alla venerazione dei devoti.
La devozione al Santo è viva tuttora e il Santuario di Conche è meta di continui pellegrinaggi, specie nella stagione estiva.
Niardo sempre desiderò avere presso di sé le reliquie dei suoi Santi, ma sempre trovò degli impedimenti come se alcuno fosse geloso di queste nostre glorie.
Non risulta che i Santi abbiano pronunciata la frase dantesca: “Ingrata patria, tu non avrai le mie ossa”, pur tuttavia, quanto tribolare!
Finalmente, dopo parecchie vicissitudini, nel 1717, i sospirati cimeli vennero consegnati nelle mani dell’arciprete don Bortolo Biasino, ricevute a mezzo del rev. Padre Alberto Campana… ma si lamentò dell’ingente spesa di 50 scudi (£ 350). A trattare l’affare erano state incaricati Taddeo Poli e Francesco Calso.
Le reliquie vennero depositate in San Giorgio in un apposito armadio e le chiavi per aprirlo erano due. Una era affidata ad un console, che rappresentava la comunità; l’altra era nelle mani del curato, aiutante dell’arciprete.
S’intende che per aprire l’armadio necessitassero le due chiavi, cioè il consenso dell’autorità civile e religiosa del paese.
Nel 1718 si venne in possesso di una seconda reliquia.
In varie circostanze di calamità le sante reliquie venivano esposte alla venerazione dei cittadini, i quali si rivolgevano fiduciosi al Santo per avere intercessione di aiuto e protezione.
Entrando nella nostra chiesa parrocchiale colpisce subito l’occhio un monumentale altare marmoreo dedicato a Sant’Obizio.
Sopra l’altare contrapposto, sulla “pala” in tela, di grandi dimensioni, sono raffigurati San Costanzo e il Beato Innocenzo, entro il saio di cappuccino.
Le loro rispettive tombe sono nella Parrocchiale di Nave e in una cappella attigua al cimitero di Berzo Inferiore.
E’ utopistico pensare che i loro resti mortali vengano al “paese natio”. Ancora una volta rassegniamoci a ripetere quanto suggerito del Doneda: “accontentatevi del corpo di Sant’Obizio!”.
Però … lasciateci la libertà di annoverare Niardo come “patria di Santi”, primato che rarissimi paesi al mondo possono vantare.

IL SEGUENTE DOCUMENTO E’ STATO RIPORTATO DAL LIBRO:

“I SANTI DI NIARDO, COSTANZO – OBIZIO - INNOCENZO”
EDIZIONI “LA VOCE DI NIARDO” - 1981
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